La ridefinizione delle supply chain globali è un tema sempre più discusso alla luce delle tensioni tra Cina e Stati Uniti. Le nuove guerre contemporanee, frutto di conflitti già latenti, rimettono in discussione la stabilità dell’ordine internazionale. Lo abbiamo visto con l’Ucraina soprattutto in relazione al grano, e lo vediamo nell’acuirsi del conflitto israelo-palestinese con gli attacchi al commercio dallo Yemen. Nella “grande riallocazione” le principali potenze del nord globale – e in parte le aziende più importanti – ricercano nuove strategie.

Fine dell’opzione cinese?

In un recente lavoro della Harvard Business School il momento odierno nell’economia globale è stato definito “la grande riallocazione”. Questo perché da anni vengono espressi dubbi sulla Cina come luogo ideale per produrre beni di consumo a basso costo, mentre i salari cinesi sono aumentati più di cinque volte tra il 1993 e il 2015. Il protezionismo sta aumentando i prezzi su migliaia di prodotti e materiali cinesi importati e quest’anno le importazioni statunitensi dal Messico hanno superato quelle dalla Cina. Vietnam, Malesia e altri paesi del sud-est asiatico, così come l’India, sono tra quelli che vedono un aumento della loro rilevanza come conseguenza.

Si parla sempre più di nearshoring e una certa quantità di attività sta tornando negli Stati Uniti. Anche perché la Cina non può essere più considerata “fabbrica del mondo” ma competitor per l’egemonia globale. La decisione su dove collocare la produzione non è solo una questione di manodopera più economica. Ma la ragione principale per cui i fornitori si stanno diversificando dalla Cina è il crescente rischio geopolitico. Gli Stati Uniti, nel frattempo, trarranno vantaggio da un certo reshoring all’interno dei propri confini, dove la produzione nazionale rappresenta circa il 10,7%, impiegando l’8,41% della forza lavoro totale. Ma Washington non può permettersi di abbandonare completamente la Pechino.

Gli effetti di sanzioni e tensioni

La Fed di New York ha approfondito le conseguenze dei controlli sulle esportazioni statunitensi, volti a limitare la spedizione di tecnologie sensibili in Cina. La conclusione è che i controlli sulle esportazioni, conseguenza della riallocazione, possono essere stati efficaci nel limitare l’accesso cinese alla tecnologia. Tuttavia, sono andati a scapito delle aziende e dei posti di lavoro statunitensi costando ai fornitori statunitensi circa 130 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Questo ha comportato con crolli di ricavi, redditività, riduzione dei prestiti bancari e un calo significativo dell’occupazione tra i fornitori colpiti. Gli ex fornitori statunitensi di aziende cinesi come Huawei faticano a trovare nuovi mercati per sostituire quello cinese.

Il Fondo Monetario Internazionale, da sempre contrario ai sussidi dei governi e favorevole al libero mercato, sta raccogliendo prove sull’efficacia delle nuove politiche industriali governative. Secondo il Fiscal Monitor pubblicato la scorsa settimana, l’aspetto più problematico dei sussidi è la loro possibile allocazione errata e la possibile distorsione del mercato. Quanto alla stabilità della supply chain, secondo Ascm e Kpmg i fattori infrastrutturali e geopolitici stanno compromettendo la possibilità di un ritorno al periodo pre-pandemia. “I fattori geopolitici hanno posto rischi al settore logistico, portando a interruzioni nella distribuzione, nei trasporti e nella capacità”, ha affermato Brian Higgins, direttore di Kpmg, sottolineando come per proseguire nel percorso verso una catena di fornitura più stabile sia importante concentrarsi sull’ottimizzazione delle scorte e la crescente adozione dell’automazione.

Nuove prospettive

Gli Stati Uniti stanno sostenendo progetti di infrastrutture, la produzione di semiconduttori e la lavorazione delle materie prime (come abbiamo scritto anche in un articolo nel nostro magazine), mentre i loro partner e alleati cercano di far crescere le partnership in settori strategici, l’Italia con la volontà di diventare un hub energetico per l’Europa dall’Africa e in generale l’Unione Europea per avanzare nella transizione ecologica e digitale attraverso l’approvvigionamento di materie prime. Ma se paragonata alla Cina, l’Europa si trova ancora in estremo ritardo sulle materie prime critiche e il lavoro da fare è ancora molto.

Le materie prime sono critiche per le difficoltà di essere reperite e per il loro controllo da parte di stati non proprio percepiti come partner. Per questo motivo tanto l’Unione Europea quanto l’Italia dovranno valutare nuove strategie, innovazioni e partnership, come in parte stanno facendo, per continuare ad essere competitive nella transizione ecologica e digitale. Tutto questo mantenendosi in equilibrio all’interno di questa “riallocazione” delle catene di fornitura influenzate da un’instabilità geopolitica che potrebbe aggravarsi.